Inviato da Comitato Elettorale il Dom, 03/02/2013 - 18:08
di ALBERTO BOBBIO - foto di Nino Leto
Gli albanesi del Kosovo, profughi nei campi o "prigionieri" nelle zone controllate dai serbi, hanno perso tutto. Resta la fierezza per una storia secolare e una terra cui tutti vogliono tornare. La storia di Ilire, nipote di Ibrahim Rugova, arrivata in Italia grazie agli inviati di Famiglia Cristiana.
Skopje, aprile
Buon viaggio, Ilire, buon viaggio. Il sole picchia forte sulla pista. Il C130 dell’Aeronautica militare stacca le ruote e va su. Le montagne del Kosovo si allontanano a poppa. Quattro caccia della Nato disegnano arabeschi nel cielo: scendono, sganciano le bombe e tornano in alto. Buon viaggio Ilire e non voltarti, almeno ora, a guardare la morte che arriva dal cielo e dalla terra. La notte sarà più dolce questa sera.
Il campo di Bradze (Macedonia), in cui i profughi del Kosovo
sono assistiti dai militari italiani.
Accidenti ce l’abbiamo fatta. Ci abbracciamo in tre: Filippo Landi del Tg1, Nino Leto e io. E poi il tenente Fabrizio Centofanti, portavoce dei soldati italiani della Nato, gli uomini dell’ambasciata d’Italia nella capitale macedone. Squillano i telefonini. Da Roma il sottosegretario alla Difesa Massimo Brutti vuol sapere: «Sì, l’aereo è partito». Sul volo del capitano Riccardo Pulvirenti, 46a Brigata aerea, ci sono i primi profughi del Kosovo che arrivano in Italia. Li accompagna Erminio Latini, sindaco di Artena, un paese di 12.000 abitanti sui colli di Roma, che li ospiterà. Tra loro ci sono il cugino e i nipoti di Ibrahim Rugova, il leader moderato albanese del Kosovo, che praticamente è agli arresti nella sua casa di Pristina: Rrusten Rugova, la moglie Xufe, i figli Ariana e Veton. E poi c’è Ilire e la sorella Mimoza: Ilire Zajmi, giornalista di Pristina, scrittrice di successo fidanzata di Veton, interprete di tanti giornalisti italiani in questo anno di tragedia. Questa è la storia di uno sforzo corale.
Il telefono squilla nella notte da qualche parte in Europa. Gracchia: «Sono Ilire, sono viva...». La linea s’interrompe. E comincia la caccia. Non possiamo entrare nel grande lager di Blace. Forse Ilire è qui, deportata da Pristina. Aspettiamo che i macedoni svuotino il campo. Ma è notte quando lo fanno e i giornalisti sono tenuti a distanza. I profughi vengono infilati nei due grandi campi alla periferia della capitale: Stenkovec e Bradze, il primo dei militari francesi, il secondo dei militari italiani e inglesi. Decidiamo all’alba: Filippo Landi batterà il campo francese, noi quello italiano. Ore e ore a camminare tra le tende, a domandare alla gente, decine di biglietti lasciati qui e là e un grande cartello sul muro dei messaggi.
Finché... Eccola. È Ilire e Mimoza e c’è anche Veton, alto e biondo con la sorella e i genitori. Salvi, tutti salvi. Una famiglia di giornalisti e intellettuali, la famiglia più in vista di Pristina. Rrusten Rugova è un analista politico molto conosciuto. Lavorava a Rilinda, la rivista più prestigiosa del Kosovo, chiusa da Milosevic già nel 1990, inviato speciale e poi editorialista. Per vivere s’è arrangiato a scrivere sul giornale degli agricoltori. Il figlio Veton è caporedattore a Focus, giornale indipendente di Pristina. La sorella Ariana è assistente alla facoltà di Scienze biologiche. Ilire, giornalista della Gazeta Shipetara, ha scritto un romanzo che è stato in testa alle classifiche di vendita in Kosovo per tutto il 1997. La sorella Mimoza, la più piccola, studia all’università e anche lei per vivere faceva l’interprete. «Adesso la scrittrice è diventata profuga», dice Ilire: «Ma non voglio imparare l’arte della sopravvivenza. Ho portato uno specchio. Stamane mi sono guardata. Ho detto: sono viva, devo fare qualcosa per me».
Ilire Zajmi con il fidanzato Veton Rugova.
Il suo romanzo si intitola Sogni ribelli, una storia d’amore tra due ragazzi del Kosovo in questi anni. Lui va all’estero, dopo la fine dell’autonomia concessa da Tito. Lei resta, tenace, a lavorare per il suo popolo nella città dell’apartheid imposta dai serbi. Si ritrovano dopo tre anni. Lei capisce che è diventato contrabbandiere di droga senza amore e senza memoria e decide di non sposarlo più.
Anche Ilire una volta era venuta in Italia. Un fratello abita a Treviso. Ma dopo un po’ era tornata: giornalista a Pristina. «Il giorno che son partiti gli osservatori dell’Osce, sapevo che da lì in avanti avrei rischiato la vita, insieme a Veton e suoi». Ilire vuoi tornare in Italia? «Sì, ma tutti insieme. Ho lasciato Pristina per amore di Veton». Il tenente Fabrizio Centofanti, portavoce dei militari italiani, compone il numero di telefono: «Sì, sono il sindaco Latini...». Artena è il suo paese. Conosce la disponibilità degli abitanti e dell’amministrazione comunale. In passato hanno ospitato altri profughi di altre guerre. Nel convento dei francescani il padre Cerasa, in accordo con il sindaco e la Regione Lazio, ha attrezzato alcuni appartamenti: «Datemi un paio d’ore», dice il sindaco Latini, «il tempo di convocare la Giunta».
Veton e gli altri con Erminio Latini, sindaco di Artena, sul C130 che li porta in Italia.
Ilire e i suoi hanno salvato i passaporti. L’ambasciatore d’Italia a Skopje Antonio Tarelli si mette subito al lavoro. Il generale Mauro Del Vecchio, capo delle truppe italiane in Macedonia, dà il via libera: «C’è un aereo militare tra due giorni. State sicuri, ci saliranno». Dura 48 ore la corsa mozzafiato. Nino Leto da fotoreporter si trasforma in fotografo per fototessere. I funzionari dell’ambasciata preparano ogni documento buono per tirare fuori i nostri amici dal campo. I militari tra Roma e Skopje si infilano in ogni pertugio per evitare gli intoppi della burocrazia. E noi non li molliamo un momento.
Ilire fotografata da Nino Leto.
Ilire ora è più tranquilla. Partirà, ma lascia in Kosovo a Prizren i genitori, altre tre sorelle e la nonna. Di loro non ha notizie. Le ritornano le immagini felici. Pensa ai sui articoli, ai suoi libri, alla piccola casa di Pristina. Aveva appena comperato un computer nuovo. Tira fuori dalla tasca il taccuino. È il diario della tragedia. Ilire lo ha tradotto per noi.
26 marzo. Partono i giornalisti stranieri. Stanotte hanno bombardato. Penso alla nonna. Vedrà un’altra guerra. Alle 20 di nuovo il cannone. Proviamo a scendere nel rifugio. Ma lì c’è posto solo per i serbi.
27 marzo. Esco solo io. Veton e gli altri sono chiusi in casa. Gente armata ferma le persone per strada e chiede i documenti. Prendono gli uomini e li ammassano allo stadio. Meno male che parlo il serbo senza accento. Riesco a prendere due pagnotte. Nelle file possono entrare solo i serbi. Agli albanesi i poliziotti dicono di chiedere il pane alla Nato.
28 marzo. Manca l’acqua. Le strade sono piene di carri armati. Bruciano i negozi. Nel cortile dell’ospedale hanno ricoverato le artiglierie. Esco e giro per la città. Mi dicono che allo stadio ci sono 12.000 persone. Sento che a Skenderaj 200 persone sono state fucilate. Vado alla chiesa cattolica. Don Nosh è mio amico. Riesco ad avere un po’ di acqua benedetta. Pristina brucia. Dalle finestre del quinto piano si vedono fuochi in ogni direzione. Spero che la Nato non colpisca la nostra casa.
2 aprile. Alla fine sono venuti. In tre con il passamontagna nero, accompagnati da un poliziotto vestito di blu. Rugova? han chiesto. Volevano soldi e gioielli. Noi avevano già nascosto tutto. Hanno preso poco. Prendiamo una borsa: due pantaloni e una maglietta a testa, i biglietti dei miei amici giornalisti, la tessera del nostro Ordine e i passaporti. Riesco a nascondere il telefonino. Pristina è deserta. Nessuno ci ferma fino alla stazione. Ci fanno anche pagare il biglietto: 20 dinari. Il treno è pronto: 23 vagoni. Siamo fortunati, nessuno ci ruba nulla. Per l’inferno sono due ore. Blace. Trovo un’amica: sta qui da 5 giorni. Comincio una nuova vita.
Ilire legge il suo diario ad Alberto Bobbio.
3 aprile. Per prendere da mangiare devo correre dietro a un trattore da cui lanciano pane e acqua. Ho parlato con papà a Prizren. Sta bene. Anch’io dico che stiamo bene. Ma non è vero. Ho visto un vecchio morire. Voglio dormire. Fa molto freddo.
3 aprile. Ho chiamato uno dei miei amici giornalisti. Poi la linea è caduta. Sono disperata. Non ho casa, denaro, solo la memoria e Veton.
4 aprile. Ci mettono in fila. Gli autobus sono pronti. Riesco a portare la borsa con me. Il nuovo lager ha filo spinato attorno e uomini armati. Per stanotte niente tenda, domani forse. Ho mangiato del pane. Cammino per tutta la notte.
5 aprile. C’è il sole e vado a dormire sulla collina. Un ufficiale francese mi ha ricaricato il telefonino. Provo a chiamare mamma e papà. Stanno bene.
6 aprile. Abbiamo fame. Ma le distribuzioni di cibo non hanno orario. Oggi hanno portato il pane che erano le sette di sera. Ho scoperto l’inferno sulla terra. Credevo che non ci fosse. I militari francesi sono gentili.
8 aprile. Filippo mi ha trovato. Poi è arrivato Alberto e Nino, poi gli altri miei amici giornalisti. Mi han cercato per ore in tutti i campi. Ma ce lo meritiamo? Per i bambini la vita nel campo è un disastro. La notte passa tra pianti e colpi di tosse.
10 aprile. Sono tornata a lavorare. Interprete nel campo per raccontare l’orrore del Kosovo. Un sogno che dura tre ore, poi eccomi di nuovo profuga. Ma stasera sognerò una casa in Italia. Nino ci ha fotografati. Prego Dio per i miei genitori e per Linda, Shkurta, Arianit e la mia nonna Fetije.
12 aprile. All’entrata nel campo ci sono lunghe file. Gente che va in Germania, Norvegia, Turchia, Svizzera. Come si fa a ridurre così un popolo?
Ilire e i suoi familiari all'arrivo in Italia.
13 aprile. Finalmente ci han tirato fuori. Scrivo dalla stanza di un albergo. Sono venuti al buio, un pulmino dell’esercito italiano, i funzionari dell’ambasciata. Non potevo guardare le lacrime degli altri profughi. Non riesco a dormire neppure qui. Non so come ringraziare i giornalisti italiani, i miei colleghi. Immagino il viaggio, l’aereo militare. Mi han detto che è rumoroso. Da domani voglio tornare a guardare in faccia la vita. Avrò tempo per pensare al miracolo che la tenacia dell’amicizia ha fatto per tutti noi».
Buon viaggio, Ilire e Veton.
Alberto Bobbio
Gli albanesi del Kosovo, profughi nei campi o "prigionieri" nelle zone controllate dai serbi, hanno perso tutto. Resta la fierezza per una storia secolare e una terra cui tutti vogliono tornare. La storia di Ilire, nipote di Ibrahim Rugova, arrivata in Italia grazie agli inviati di Famiglia Cristiana.
Skopje, aprile
Buon viaggio, Ilire, buon viaggio. Il sole picchia forte sulla pista. Il C130 dell’Aeronautica militare stacca le ruote e va su. Le montagne del Kosovo si allontanano a poppa. Quattro caccia della Nato disegnano arabeschi nel cielo: scendono, sganciano le bombe e tornano in alto. Buon viaggio Ilire e non voltarti, almeno ora, a guardare la morte che arriva dal cielo e dalla terra. La notte sarà più dolce questa sera.
Il campo di Bradze (Macedonia), in cui i profughi del Kosovo
sono assistiti dai militari italiani.
Accidenti ce l’abbiamo fatta. Ci abbracciamo in tre: Filippo Landi del Tg1, Nino Leto e io. E poi il tenente Fabrizio Centofanti, portavoce dei soldati italiani della Nato, gli uomini dell’ambasciata d’Italia nella capitale macedone. Squillano i telefonini. Da Roma il sottosegretario alla Difesa Massimo Brutti vuol sapere: «Sì, l’aereo è partito». Sul volo del capitano Riccardo Pulvirenti, 46a Brigata aerea, ci sono i primi profughi del Kosovo che arrivano in Italia. Li accompagna Erminio Latini, sindaco di Artena, un paese di 12.000 abitanti sui colli di Roma, che li ospiterà. Tra loro ci sono il cugino e i nipoti di Ibrahim Rugova, il leader moderato albanese del Kosovo, che praticamente è agli arresti nella sua casa di Pristina: Rrusten Rugova, la moglie Xufe, i figli Ariana e Veton. E poi c’è Ilire e la sorella Mimoza: Ilire Zajmi, giornalista di Pristina, scrittrice di successo fidanzata di Veton, interprete di tanti giornalisti italiani in questo anno di tragedia. Questa è la storia di uno sforzo corale.
Il telefono squilla nella notte da qualche parte in Europa. Gracchia: «Sono Ilire, sono viva...». La linea s’interrompe. E comincia la caccia. Non possiamo entrare nel grande lager di Blace. Forse Ilire è qui, deportata da Pristina. Aspettiamo che i macedoni svuotino il campo. Ma è notte quando lo fanno e i giornalisti sono tenuti a distanza. I profughi vengono infilati nei due grandi campi alla periferia della capitale: Stenkovec e Bradze, il primo dei militari francesi, il secondo dei militari italiani e inglesi. Decidiamo all’alba: Filippo Landi batterà il campo francese, noi quello italiano. Ore e ore a camminare tra le tende, a domandare alla gente, decine di biglietti lasciati qui e là e un grande cartello sul muro dei messaggi.
Finché... Eccola. È Ilire e Mimoza e c’è anche Veton, alto e biondo con la sorella e i genitori. Salvi, tutti salvi. Una famiglia di giornalisti e intellettuali, la famiglia più in vista di Pristina. Rrusten Rugova è un analista politico molto conosciuto. Lavorava a Rilinda, la rivista più prestigiosa del Kosovo, chiusa da Milosevic già nel 1990, inviato speciale e poi editorialista. Per vivere s’è arrangiato a scrivere sul giornale degli agricoltori. Il figlio Veton è caporedattore a Focus, giornale indipendente di Pristina. La sorella Ariana è assistente alla facoltà di Scienze biologiche. Ilire, giornalista della Gazeta Shipetara, ha scritto un romanzo che è stato in testa alle classifiche di vendita in Kosovo per tutto il 1997. La sorella Mimoza, la più piccola, studia all’università e anche lei per vivere faceva l’interprete. «Adesso la scrittrice è diventata profuga», dice Ilire: «Ma non voglio imparare l’arte della sopravvivenza. Ho portato uno specchio. Stamane mi sono guardata. Ho detto: sono viva, devo fare qualcosa per me».
Ilire Zajmi con il fidanzato Veton Rugova.
Il suo romanzo si intitola Sogni ribelli, una storia d’amore tra due ragazzi del Kosovo in questi anni. Lui va all’estero, dopo la fine dell’autonomia concessa da Tito. Lei resta, tenace, a lavorare per il suo popolo nella città dell’apartheid imposta dai serbi. Si ritrovano dopo tre anni. Lei capisce che è diventato contrabbandiere di droga senza amore e senza memoria e decide di non sposarlo più.
Anche Ilire una volta era venuta in Italia. Un fratello abita a Treviso. Ma dopo un po’ era tornata: giornalista a Pristina. «Il giorno che son partiti gli osservatori dell’Osce, sapevo che da lì in avanti avrei rischiato la vita, insieme a Veton e suoi». Ilire vuoi tornare in Italia? «Sì, ma tutti insieme. Ho lasciato Pristina per amore di Veton». Il tenente Fabrizio Centofanti, portavoce dei militari italiani, compone il numero di telefono: «Sì, sono il sindaco Latini...». Artena è il suo paese. Conosce la disponibilità degli abitanti e dell’amministrazione comunale. In passato hanno ospitato altri profughi di altre guerre. Nel convento dei francescani il padre Cerasa, in accordo con il sindaco e la Regione Lazio, ha attrezzato alcuni appartamenti: «Datemi un paio d’ore», dice il sindaco Latini, «il tempo di convocare la Giunta».
Veton e gli altri con Erminio Latini, sindaco di Artena, sul C130 che li porta in Italia.
Ilire e i suoi hanno salvato i passaporti. L’ambasciatore d’Italia a Skopje Antonio Tarelli si mette subito al lavoro. Il generale Mauro Del Vecchio, capo delle truppe italiane in Macedonia, dà il via libera: «C’è un aereo militare tra due giorni. State sicuri, ci saliranno». Dura 48 ore la corsa mozzafiato. Nino Leto da fotoreporter si trasforma in fotografo per fototessere. I funzionari dell’ambasciata preparano ogni documento buono per tirare fuori i nostri amici dal campo. I militari tra Roma e Skopje si infilano in ogni pertugio per evitare gli intoppi della burocrazia. E noi non li molliamo un momento.
Ilire fotografata da Nino Leto.
Ilire ora è più tranquilla. Partirà, ma lascia in Kosovo a Prizren i genitori, altre tre sorelle e la nonna. Di loro non ha notizie. Le ritornano le immagini felici. Pensa ai sui articoli, ai suoi libri, alla piccola casa di Pristina. Aveva appena comperato un computer nuovo. Tira fuori dalla tasca il taccuino. È il diario della tragedia. Ilire lo ha tradotto per noi.
26 marzo. Partono i giornalisti stranieri. Stanotte hanno bombardato. Penso alla nonna. Vedrà un’altra guerra. Alle 20 di nuovo il cannone. Proviamo a scendere nel rifugio. Ma lì c’è posto solo per i serbi.
27 marzo. Esco solo io. Veton e gli altri sono chiusi in casa. Gente armata ferma le persone per strada e chiede i documenti. Prendono gli uomini e li ammassano allo stadio. Meno male che parlo il serbo senza accento. Riesco a prendere due pagnotte. Nelle file possono entrare solo i serbi. Agli albanesi i poliziotti dicono di chiedere il pane alla Nato.
28 marzo. Manca l’acqua. Le strade sono piene di carri armati. Bruciano i negozi. Nel cortile dell’ospedale hanno ricoverato le artiglierie. Esco e giro per la città. Mi dicono che allo stadio ci sono 12.000 persone. Sento che a Skenderaj 200 persone sono state fucilate. Vado alla chiesa cattolica. Don Nosh è mio amico. Riesco ad avere un po’ di acqua benedetta. Pristina brucia. Dalle finestre del quinto piano si vedono fuochi in ogni direzione. Spero che la Nato non colpisca la nostra casa.
2 aprile. Alla fine sono venuti. In tre con il passamontagna nero, accompagnati da un poliziotto vestito di blu. Rugova? han chiesto. Volevano soldi e gioielli. Noi avevano già nascosto tutto. Hanno preso poco. Prendiamo una borsa: due pantaloni e una maglietta a testa, i biglietti dei miei amici giornalisti, la tessera del nostro Ordine e i passaporti. Riesco a nascondere il telefonino. Pristina è deserta. Nessuno ci ferma fino alla stazione. Ci fanno anche pagare il biglietto: 20 dinari. Il treno è pronto: 23 vagoni. Siamo fortunati, nessuno ci ruba nulla. Per l’inferno sono due ore. Blace. Trovo un’amica: sta qui da 5 giorni. Comincio una nuova vita.
Ilire legge il suo diario ad Alberto Bobbio.
3 aprile. Per prendere da mangiare devo correre dietro a un trattore da cui lanciano pane e acqua. Ho parlato con papà a Prizren. Sta bene. Anch’io dico che stiamo bene. Ma non è vero. Ho visto un vecchio morire. Voglio dormire. Fa molto freddo.
3 aprile. Ho chiamato uno dei miei amici giornalisti. Poi la linea è caduta. Sono disperata. Non ho casa, denaro, solo la memoria e Veton.
4 aprile. Ci mettono in fila. Gli autobus sono pronti. Riesco a portare la borsa con me. Il nuovo lager ha filo spinato attorno e uomini armati. Per stanotte niente tenda, domani forse. Ho mangiato del pane. Cammino per tutta la notte.
5 aprile. C’è il sole e vado a dormire sulla collina. Un ufficiale francese mi ha ricaricato il telefonino. Provo a chiamare mamma e papà. Stanno bene.
6 aprile. Abbiamo fame. Ma le distribuzioni di cibo non hanno orario. Oggi hanno portato il pane che erano le sette di sera. Ho scoperto l’inferno sulla terra. Credevo che non ci fosse. I militari francesi sono gentili.
8 aprile. Filippo mi ha trovato. Poi è arrivato Alberto e Nino, poi gli altri miei amici giornalisti. Mi han cercato per ore in tutti i campi. Ma ce lo meritiamo? Per i bambini la vita nel campo è un disastro. La notte passa tra pianti e colpi di tosse.
10 aprile. Sono tornata a lavorare. Interprete nel campo per raccontare l’orrore del Kosovo. Un sogno che dura tre ore, poi eccomi di nuovo profuga. Ma stasera sognerò una casa in Italia. Nino ci ha fotografati. Prego Dio per i miei genitori e per Linda, Shkurta, Arianit e la mia nonna Fetije.
12 aprile. All’entrata nel campo ci sono lunghe file. Gente che va in Germania, Norvegia, Turchia, Svizzera. Come si fa a ridurre così un popolo?
Ilire e i suoi familiari all'arrivo in Italia.
13 aprile. Finalmente ci han tirato fuori. Scrivo dalla stanza di un albergo. Sono venuti al buio, un pulmino dell’esercito italiano, i funzionari dell’ambasciata. Non potevo guardare le lacrime degli altri profughi. Non riesco a dormire neppure qui. Non so come ringraziare i giornalisti italiani, i miei colleghi. Immagino il viaggio, l’aereo militare. Mi han detto che è rumoroso. Da domani voglio tornare a guardare in faccia la vita. Avrò tempo per pensare al miracolo che la tenacia dell’amicizia ha fatto per tutti noi».
Buon viaggio, Ilire e Veton.
Alberto Bobbio
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