Wednesday, May 13, 2020

«Un treno per Blace» di Filippo Landi e Ilire Zajmi Cronaca ragionata di una guerra senza fine


In questi giorni, in cui la cronaca ci riporta in Kosovo, è naturale sentire come certe realtà sembrano esistere solo quando conquistano le pagine dei giornali. Sono i morti _ e solo se in numero sufficiente _ che rendono reale per noi un popolo, un paese, una storia. Una volta terminato il conflitto, sul Kosovo è sceso l'abituale velo della distanza. Eppure la guerra appena terminata non è stato che un momento di crisi visibile, e la pace, estremamente fragile, ha lasciato irrisolta gran parte dei problemi. Tra la guerra e la pace, uomini e donne reali hanno continuato a vivere i loro drammi, che il conflitto, come accade spesso, ha reso magari ancora più tremendi. Qual è la responsabilità del cronista, in tutto ciò? E un calcolo cinico, quello che porta il giornalista a fingere partecipazione in un evento storico, finché esso «tira», salvo poi soffrire di amnesie e infatuazioni nuove, al cambio del vento della storia? Queste domande sembrano essersi posti un giornalista italiano e una sua collega kosovara, nel concepire questo libretto a quattro mani, da poco uscito per le edizioni La Meridiana. «Un treno per Blace» (La Meridiana, pagg. 126, L. 18.000) l'opera congiunta di Filippo Landi e Ilire Zajmi, racconta a due voci i giorni immediatamente precedenti l'intervento Nato, con l'esodo forzato di migliaia di kosovari di etnia albanese, i campi profughi, la pulizia etnica, fino ad arrivare ai bombardamenti sulla Serbia e all'entrata delle truppe dell'Alleanza. Ma sbaglierebbe chi cercasse nel libro un approfondimento politico su quella ambigua e indecifrabile guerra, che sembra oggi essere stata perduta da tutte le forze in campo. Animati dall'amicizia che li lega, da un certo sgomento impotente davanti agli orrori che si preparano, i due giornalisti che allora inseguivano la cronaca, e si sforzavano di raccontare a un pubblico lontano la logica dei fatti, hanno affrontato in queste pagine un altro tema. Attraverso una sequenza di fatti umani, di ritratti estemporanei catturati a un posto di frontiera, in un campo profughi, cercano di trasmetterci il contenuto umano di quei giorni. E la sensazione è di caos. Quello che poteva sembrare logico visto dalle telecamere o dalle riprese dei bambardieri, visto dal basso assume l'aspetto di una serie di eventi senza senso, dove la gente pacifica e ragionevole è portata inavvertitamente verso le opzioni più estreme. Dove i gesti più normali, come andare al cinema, uscire a cena, divenano assurdi. E si capisce come la convinzione di aver portato aiuto, grazie a qualche settimana di bombardamenti e a una passeggiata militare, non sia che una ipocrisia. Nel frattempo, in Kosovo come nella Federazione Jugoslava, le due fazioni violente, si sono rafforzate. Se Milosevic è ancora al suo posto, la parte pacifista di Rugova è messa in secondo piano dall'Uck. E tutto fa pensare che una pace durevole sia lontana. La testimonianza di questo libro, se poco aggiunge a quello che si reisce a capire di quell'enigma che sono i Balcani, ha il merito di sfondare il sipario della cronaca e di lasciare memoria degli uomini e delle donne che dietro ad esso si muovono.



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